
Insegnare a fare sport e solo successivamente la disciplina implica una scelta che potrebbe cambiare le sorti di un paese in declino sotto l’aspetto sportivo. Quando viene valorizzata la persona curandone i difetti insegnando i principi del fare correttamente le cose si permetterà al soggetto di affrontare l’attività specifica armato dei giusti presupposti. Percorso che dovrebbe essere proposto dai tecnici ad atleti che al giorno d’oggi sono spesso da riformare anche nei valori che devono perseguire nella vita. E proprio adesso che sembro aver capito cosa fare, come farlo, ora che sbaglio meno di un tempo mi trovo relegato dall’ambiente ad un ruolo comprimario che induce e incentiva all’abbandono.
Stamane sono stato in campo a trovare mio fratello e raccattare il materiale che porterò da San Lazzaro a Noale dove mi sono trasferito qualche mese fa dopo aver abbandonato la pista di Treviso visto che alcuni miei atleti hanno smesso e altri sono impegnati in progetti con l’università. Me ne sono andato soprattutto perché le società del rettilineo principale non mi passano più ragazzi da allenare e la mia presenza sembra essere diventata ingombrante ed inutile, quindi auspicabile.
Sergio era lì che allenava la sua discobola da 43-44 mt, una brava ragazza, fisioterapista di professione, che nelle pause del lavoro trova forza e motivazione per cercare di continuare ad evolvere. Nell’occasione con Sergio abbiamo parlato a lungo degli esercizi che l’atleta stava eseguendo per poi deviare su argomenti generali sempre attinenti il nostro ruolo tecnico nell’atletica. A dare il via al dibattito erano state le sue schede di esercitazioni “costruttive” per i lanciatori, cartelle riempite di esercizi formativi generali e di costruzione tecnica che dimostrano quanta dedizione ed approfondimento il fratellone dedica alla cura dei suoi atleti, costrutti non facilmente riscontrabili nei programmi di altri colleghi.
Abbiamo conversato spaziando tra esperienze ed atleti, soprattutto parlato del loro modo di fare sport e della necessità di edificare i soggetti con un percorso basato sul recupero dei deficit e svolto nel rispetto della progressività. Ma si parlava anche dei limiti che enunciano i ragazzi, confini dettati non tanto dalle scarse doti fisiche o tecniche quanto dalla mentalità acquisita dai soggetti tra le mura domestiche. Eravamo d’accordo nell’affermare che i ragazzi si differenziano notevolmente in base alla formazione familiare. Sul termine “educazione” si è poi aperto un ampio dibattito risultando un vocabolo interpretato in modi assai differenti da ognuno di noi.
Non posso qui sorvolare sull’esperienza portata a termine questa estate quando avevo invitato nella casa di montagna alcuni miei giovani atleti. Abbiamo soggiornato per una settimana durante la quale le giornate erano divise tra una parte relazionale e conviviale dove il sottoscritto faceva anche da cuoco e un’altra dedicata all’allenamento. Al termine del periodo i genitori mi avevano chiesto se i loro figli si erano “comportati correttamente”, termine che l’esperienza alpina mi aveva insegnato quanto assumesse significati differenti da persona e persona, famiglia e famiglia.
Difficile dare una risposta ai miei interlocutori visto che i valori ed il rispetto delle regole, disponibilità e collaborazione sembrano per me spostati in tutt’altra direzione se paragonate a quelle che le famiglie ritengono di aver insegnato ai loro figli.
In quel breve periodo di soggiorno ho imparato che la “mentalità” acquisita non è che la conseguenza dei tanti aspetti trasmessi dai genitori ai figli in virtù di un affetto spesso esagerato, fattore che predispone padri e madri ad alleggerire i rampolli di ogni incombenza. Emergeva, dall’interloquire con Sergio, un concetto legato inscindibilmente al “modo di educare” quindi al conseguente comportamento che l’atleta si porta in campo ed esprime con atteggiamenti che inducono l’allenatore a rieducare il soggetto per poterlo allenare correttamente.
Portare in magazzino il materiale usato, fare assistenza al compagno durante gli esercizi, rispettare le prescrizioni diventano per molti ragazzi un momento formativo sul quale la famiglia sorvola.
Se troviamo difficoltà ad allenare è quasi sempre per motivi estranei al campo e queste cose si traducono in abitudini familiari e pressioni che la famiglia esercita su di noi tecnici perché “non facciamo fare abbastanza la specialità, i risultati sono insoddisfacenti, i progressi visibili ma non del tutto qualificanti per il loro figlio”.
Anche l’allenamento risente quindi di tante componenti che a volte funzionano ed in altre occasioni no. Con Sergio passare da queste considerazioni all’aspetto tecnico il passo è stato breve.
Mi è bastato osservare la dettagliata scheda che Sergio offriva per rendermi conto che il lavoro “costruttivo” abbisogna di tempo, dedizione, concentrazione e una cura delle pretese sulle quali gli operatori sportivi quasi sempre sorvolano.
Una delle considerazioni alle quali siamo arrivati grazie allo scambio di idee ed esperienze ci ha condotto a considerare come il nostro agire guardi allo SPORT prima che all’atletica e ciò induce a formare atleti in modo completo evitando di trascurare la mentalità, le qualità fisiche e motorie, preparando i soggetti ad affrontare la specialità successivamente. E’ un lavoro lungo e certosino, difficile da accettare per atleti e i giovani allenatori, difficoltoso da digerire per genitori che vorrebbero tutto e subito.
Forse per la bassa temperatura, i nostri discorsi si sono progressivamente accesi ed infervorati. Rafforzandosi a vicenda siamo quindi giunti a parlare degli allenatori.
Da parte mia evidenziavo una certa delusione riguardo alcuni tecnici, colleghi dai quali mi sarei aspettato qualcosina di più. L’analisi personale porta a considerare il nostro campo d’intervento confinato in un ristretto modo di operare, non tanto sclerotizzato nell’aspetto condizionale o tecnico quanto nel gestire le metodologie senza guardare alle caratteristiche ed esigenze che i ragazzi enunciano, proponendo a tutti la stessa ricetta.
Sotto questo profilo devo ringraziare la sorte per avermi costretto a spaziare tra specialità molto differenti, cosa che mi ha indotto ad approfondire ambiti che non avrei certo preso in considerazione se mi fossi limitato ad allenare i salti, discipline per le quali porto nel portafoglio il tesserino Federale di tecnico specialista. Guardare alla didattica delle categorie giovanili, seguire le prove multiple, la velocità, il mezzofondo e gli ostacoli del settore assoluto ha aperto la mia persona ad una visuale a 360° favorendo il trasferimento di conoscenze e competenze da una disciplina all’altra.
Spesso chi ha questa fortuna si limita ad applicare la gestione tecnica seguendo il naturale evolversi dell’atleta, sfrutta le opportunità offerte da un soggetto di buona levatura (Aggiornamenti, incontri con altri tecnici, raduni…), viene però difficile cogliere gli aspetti che riconducono specialità tanto differenti allo stesso ambito.
Ai più sembra che mettere in correlazione le sensibilità di una variazione ritmica della corsa con il salto in lungo risulti assai difficile, così come diventa impossibile cogliere le attinenze tra lo sviluppo della forza di un lanciatore e l’incremento della resistenza di un mezzofondista.
Se invece di guardare alle discipline si volge lo sguardo allo SPORT appare più facile correlare le esperienze perché si vanno a collocare azioni e metodologie per ambiti precisi (coordinazione, flessibilità, forza, destrezza, posture, resistenza, assetti, meccanica …) e questo consente di rendersi consapevoli che non cambia molto spostarsi dal mezzofondo ai lanci. A fare da guida sono i tanti presupposti e “valori” che le diverse specialità e sport esprimono.
Il tutto si dovrebbe tradurre nell’acquisire il concetto che fare sport significa curare la persona, limarne i difetti, far conseguire al soggetto i presupposti tecnici, articolari o ritmici e solo successivamente addentrarsi negli approfondimenti che la disciplina specifica comporta.
Sembra banale ma non lo fa quasi nessuno, alcuni lo pensano insignificante, altri lo ritengono un perditempo, per molti è talmente ovvio e banale che lo evitano del tutto. Avendo tempo limitato a disposizione i più ritengono si possa sorvolare su questi valori per concentrarsi nello sviluppo delle peculiarità che caratterizzano le specialità anche senza possedere i necessari presupposti. L’aspetto evolutivo del moderno operatore sportivo negli ultimi anni è ricondotto ad introdurre qualche esercizio tecnico analitico della corsa, saltello con la fune o planck isometrico per definire aggiornato ed evolutivo il proprio modo di allenare. Tutto questo serve certamente per mettere a posto la coscienza ma appare assai distante dall’esercitare un mestiere, quello dell’allenatore, ben più articolato e complesso di quello che sembra.
Non basta infatti il cronometro appeso al collo per diventare un riferimento tecnico, bisogna acquisire qualche capacità nella lettura del movimento e dei bisogni dei propri atleti, concentrarsi e programmare un percorso per recuperare i deficit, conoscere le fasi fondamentali dell’azione fornendosi di un ampio eserciziario a cui attingere padroneggiando i valori dei singoli esercizi. Infine utilizzare le strumentazioni esistenti per ottenere dati e ragguagli sulle capacità e bisogni del proprio atleta.
Così parlando, io e Sergio ci siamo resi conto che guardare all’atletica cambia nel tempo (quanto ne è passato) ed oggi che abbiamo fatto nostri certi valori, aggiustato il ritmo dell’insegnare ed affinate le sensibilità nel rapportarsi con gli atleti ci accorgiamo che è diventato tardi.
Sarebbe stato bello essere in possesso di questo bagaglio da giovani, quando si ha l’entusiasmo. E le energie. Per questo invito sempre i giovani allenatori prodigarsi non tanto ad allenare quanto ad imparare dagli altri. Isolarsi in campo serve a poco, bisogna proiettarsi ad espandere le proprie conoscenze facendole diventare competenze. Questo dovrebbe rappresentare il vero grande obiettivo per la nuova generazione tecnica.