
Di: Nadine Debois
Introduzione di Paul Fournel:
Gli atleti nella loro testa è un libro nel quale gli atleti parlano di cose semplici: fallimento, invecchiamento, autolimitazioni, piacere dello sforzo, felicità per una folata di vento, l’inaccettabile potenza dell’altro. Quello che dicono è singolare perché gli atleti sono persone singolari; in un mondo in cui nessuno vuole essere giudicato o soppesato, chiedono di essere classificati, battuti, stracciati e lo chiedono in nome di un minuto di gloria che il più delle volte non arriverà mai e che, se arriverà, sarà la più terribile macchina per creare ansia che ognuno di loro possa immaginare.
Cosa c’è nella testa di uno sciatore in cima a una pista? In quello di un calciatore prima di tirare in porta? E in un ciclista così ubriaco di fatica da non vedere più la strada? Affascinati dall’impresa, gli atleti sono pronti a tutto per un minuto di gloria. Addestrati al combattimento, sono comunque fragili: gioie e dubbi li attraversano, perché dal trionfo alla caduta, c’è solo un passo..

Il lavoro di Paul Fournel, professore di letteratura ma molto appassionato di sport ed in modo particolare di ciclismo, si compone di ventidue racconti, ciascuno di questi si sofferma un istante su uno sportivo di alto livello, sul suo vissuto, sulle sensazioni nella preparazione all’azione, nell’azione stessa, o ancora, in un momento chiave della sua carriera. Questi atleti provenienti da differenti sport (atletica, pugilato, ciclismo, calcio, rally automobilistico, sci, tennis…) sono immaginari, certo, ma allo stesso tempo così reali e sempre così attuali che il lettore, anche se poco incline all’attività sportiva, ritrova briciole della propria esperienza. Il libro “gli parla”.
Il tono è umoristico e alcuni ritratti sono presentati con un tratto un po’ caricaturale. Tutto questo non disturba e non impedisce una ricca sorgente di riflessioni sulla dimensione affettiva e più largamente psicologica inerente la ricerca della prestazione
“Il tono è umoristico e alcuni ritratti sono dipinti con un tratto un po’ caricaturale” |
nello sport. L’obiettivo ricercato è di contribuire, partendo da dieci racconti di questo lavoro di Paul Fournel basati sull’azione, ad una riflessione, un dibattito, una condivisione delle esperienze, focalizzate sull’atleta e sul suo vissuto nella ricerca della prestazione, associando nello stesso tempo, una analisi riflessiva sulla pratica e sulle conoscenze scientifiche, collegate con le reazioni e le problematiche che possono suscitare i racconti dell’opera.
L’interesse nel sostenere progetti di prestazione, parte dalla necessità di inglobare tutti gli elementi nel contesto nel quale si inseriscono, è di porre gli attori, (per ex: atleti, allenatori) in una dinamica di comprensione della situazione, basata su un analisi multifattoriale e non semplicemente su delle credenze o delle interpretazioni sistematiche quali, in particolar modo, l’impatto della mente sulla capacità dello sportivo di esprimere il giorno X tutto il suo potenziale. Non è raro in effetti, vedere attribuire senza alcun ripensamento, a cause rigorosamente psicologiche alcuni risultati sportivi. Quando una squadra vince è la mente che ha tenuto. Quando perde, è la mente che ha ceduto.
Un tale modo di interpretare la dimensione psicologica tende ad isolare gli altri elementi costitutivi della prestazione. Il rischio è allora, in una analisi dell’azione prodotta, di occultare degli elementi oltre che psicologici, (es: fisici, contestuali o ancora, legati all’ambiente materiale o umano) che non hanno potuto sostenere un ruolo, nella facoltà dello sportivo di esprimere tutto il proprio potenziale. Non si tratta dunque di nascondere la dimensione psicologica, ma semplicemente di restituirla allo spazio che le compete in quanto elemento, tra gli altri, in interazione permanente; l’insieme costituisce così un sistema dinamico di risorse e di vincoli per l’azione.
Prendiamo così il caso dello stress, associato troppo spesso al contesto della prestazione. Una competizione a forte interesse personale costituisce un’esperienza a forte carico emozionale per il fatto stesso di ciò che la caratterizza, vale a dire: (nelle proporzioni variabili, secondo il tipo di sport considerato)
- Una situazione di creazione della prestazione in diretta (non vi è una seconda possibilità) e pubblica (attenzione/giudizio degli altri).
- Una situazione a forte vincolo temporale dove si combinano, anticipazione e reattività, controllo e lucidità.
- Una situazione con forti vincoli informativi in un ambiente in costante movimento,
- Una situazione che coinvolge sempre un elemento di imprevedibilità in cui l’adattabilità, persino la creatività, diventa un elemento importante,
- Una situazione che fa parte di una logica gerarchica basata su un sistema di progressiva eliminazione e che porta a una classificazione in cui vengono onorati solo il primo posto e, in misura minore, i suoi due vicini.
L’esperienza emozionale diventa quindi parte integrante della competizione, essa dipende dal grado di motivazione dell’atleta, dagli obiettivi e dal grado di difficoltà che la competizione comporta in relazione con gli obiettivi che insegue, (es: effettuare degli aggiustamenti prima di una competizione importante, ottenere la partecipazione ad un evento, conquistare un titolo…) e delle risorse di cui dispone, o più precisamente ciò che percepisce, per riuscire nella sua impresa.
“Vivere delle emozioni forti è obiettivamente uno degli ingredienti della pratica dello sport di alto livello” |
Vivere delle emozioni forti è obiettivamente uno degli ingredienti della pratica dello sport di alto livello. È anche ciò che è spesso viene ricordato dagli sportivi quale sensazione mancante nei primi periodi dell’arresto della carriera. L’emozione non è semplicemente negativa o positiva; è molteplice, ciò rende ambiguo per l’atleta ottenere feedback dalle sue sensazioni in gara. Non è raro, per esempio che, nella fase di attesa, la paura, (“oggi, e non è come al solito, sta male. È chiuso nel suo tormento di astista […]. Non ha controllo sulla tecnica, ha paura. La sola cosa al mondo che possa fargli paura in questo momento… è sé stesso” p. 107) corteggia la fiducia (“non teme i suoi avversari sa che può batterli tutti, anche il russo. Non teme i colleghi in pedana, li conosce tutti. Non è mai stato così sicuro.”, p. 106).
Non sono dunque semplicemente le emozioni in quanto tali, provate dall’atleta nell’attesa come nell’azione, che occorre temere nell’analisi della prestazione, ma anche e forse soprattutto il contesto in cui si manifestano. Alcuni atleti sono sistematicamente ansiosi al momento dei grandi avvenimenti. Possiamo attribuire di primo acchito a questa ansia (spesso descritta come stress) i fallimenti che a volte essi subiscono, anche se spesso viene occultata nell’analisi delle prestazioni quando l’atleta riesce ad ottenere una buona prestazione?
Piuttosto che accontentarci di attribuire allo “stress” dell’atleta i suoi insuccessi, non dovremmo piuttosto sforzarsi ad identificare le condizioni nelle quali lo stress si manifesta, non solamente nelle situazioni di insuccesso o di minore prestazione, ma anche nelle competizioni dove l’atleta ha saputo esprimere tutto il suo potenziale? Un certo numero di lavori di ricerca, particolarmente quelli di Richard S. Lazarus, distinguono le situazioni di sfida dalle situazioni di minaccia. C’è sfida quando l’atleta si percepisce in grado di affrontare efficacemente la competizione. C’è minaccia quando l’accento è messo sul timore di fallire.
“L’atleta prepara la sua competizione come una sfida che vuole affrontare” |
Gli allenatori esperti sanno bene, per esperienza, che diversi fattori possono influire sullo stato d’animo dell’atleta che va ad iniziare la sua prova. Lo stato di forma e la qualità delle sensazioni al momento delle ultime sedute di allenamento, la pertinenza del contenuto di queste sedute, le condizioni di organizzazione verso e sul luogo di competizione (es: condizioni di trasferimento e di alloggio, gestione dell’orario del viaggio, alimentazione, gestione del quotidiano nell’attesa della sua gara…), ma anche l’atmosfera di stimolo dello staff (ad es. aspettative espresse, qualità di ascolto e comunicazione, qualità del supporto logistico, ecc.) o ancora l’atmosfera in seno alla squadra (es: qualità dei relazioni interpersonali, complementarità dei patners, risultati dei primi avversari…) sono tutti elementi che possono influire sul modo in cui l’atleta affronterà la sua competizione, come una sfida che vuole vincere o come una prova dove aleggia la minaccia di non essere all’altezza delle sue possibilità e/o delle attese che si sono poste in lui (lei). Tutti questi elementi sono da considerare a monte (e talvolta ben a monte) del momento della competizione per ottimizzare le condizioni della fiducia e della sfida, ma anche da integrare nell’analisi della prestazione che segue la competizione.
Una delle ricchezze della raccolta dei racconti di Paul Fournel è che l’autore, non si inserisce in una successione di situazioni astratte, come la fiducia in se, la motivazione o ancora lo stress, ma si sofferma piuttosto nel descrivere situazioni concrete, singolari, ricche di tutte le dimensioni della prestazione, dove lo sportivo è il protagonista. E’ così che l’autore ci invita a dividere un momento del vissuto dei suoi personaggi nella preparazione alla prestazione, nell’attesa pre-competitiva, nell’azione, nella sua analisi, ma anche nel rapporto con l’avversario, la relazione con il partner, il ruolo degli altri o ancora le difficoltà nello sviluppo della carriera, l’ambivalenza successo-insuccesso che ne caratterizza il percorso, ed infine l’arresto della carriera sportiva
La preparazione alla prestazione diventa così, una fine miscela di lavoro quotidiano su tutte le dimensioni della prestazione. Il coinvolgimento come un elemento chiave (“era un atleta instancabile, uno di quelli che non mancava un giorno, sapeva mettersi a lavorare e non arretrava mai davanti ad una corda da saltare o ad un sacchetto di sabbia” p. 29). Ma questo coinvolgimento non è soltanto fisico, è globale ed allo stesso tempo mentale (“Essere un grande discesista è uno stato che esige un dono assoluto di se ed una concentrazione totale. Vivo con una borsa di 50 kg sulle spalle per scivolare meglio […]. Conosco tutte le piste del circo, centimetro dopo centimetro e, a cento quaranta all’ora, li vedo passare al rallentatore. ” p. 10-11) Conviene tuttavia per l’atleta trovare un giusto equilibrio nel suo impegno per non cadere nell’eccesso di minuziosità, nella trappola del perfezionismo (“Un giorno, l’essenziale diventerà la posizione del vostro mignolo del piede. È il dito del piede che ti permette di vincere la medaglia. Hai abbassato la suola della scarpa, hai cambiato quattordici volte la pantofola interna, ti sei arrabbiato ed hai perso due centesimi agli Houches quando tutto stava andando ok perché, entrando nello schuss in Battendier, ti sei chiesto in quale posizione esatta era il tuo dito de piede” p.11) Notiamo anche che i migliori atleti non sono semplicemente degli atleti convinti, ma piuttosto degli atleti coinvolti, attori della loro prestazione, addirittura innovatori (“Sono l’uomo più equilibrato della montagna, il più calmo, il più concentrato il mio compito è creare uno squilibrio. Tutti i grandi discesisti devono essere capaci di realizzare uno squilibrio. Scendere più velocemente significa prima scendere in modo diverso; per seminare preoccupazioni e dubbi. Scia in modo tale che gli altri siano convinti che non sarai in grado di alzarti in piedi, fino a quando un’intera generazione non scierà come te).
L’ambiente dello sportivo di alto livello, ed in particolarmente le altre persone coinvolte nel processo di prestazione, svolgono un ruolo chiave che deve essere preso in considerazione per tentare di comprendere nei minimi particolari i risultati del percorso degli atleti. Il sostegno di una squadra organizzata con uno “staff”, può essere considerato come una risorsa finché si inserisce in una logica di accompagnamento del progetto di prestazione dello sportivo e di rispetto dell’etica (“Un astista è un uomo che non deve avere problemi. Per questo, ha due allenatori, un medico, un fisioterapista, uno psicologo […] non deve inoltre avere nessun problema di denaro […], di tutto ciò è il suo manager che se ne occupa ed è un buono manager. ” p. 107). Invece, un ambiente controllato, che pone l’atleta in una posizione di semplice esecutore, addirittura di sottomissione, appare poco propizio ai fini della prestazione. Nel racconto “Il killer”, si illustrano queste forme di preparazione che si basano essenzialmente su delle tecniche di suggestione, un pugile passa in successione, dall’allenatore, dallo psicologosenza dimenticare il massaggiatore (“dopo la doccia, il massaggiatore del club lo prese in mano. Lo rilassò e l’immerse in uno stato di ebetudine contro il quale il pugile aveva imparato a non ribellarsi”. p. 30). Il racconto del percorso drammatico del mezzofondista manipolato da un presidente di club e da uno staff senza scrupoli quanto lui, fa luce sul ruolo perverso e distruttivo che entrambi possono giocare sul futuro degli atleti (“Una mattina d’inverno di tre anni fa, un uomo era venuto a vedere il suo allenamento, gli aveva spiegato che seguiva da molto tempo le sue prestazioni e che, se avesse voluto, avrebbe fatto di lui un campione […]. Aveva firmato il contratto e altre persone erano venute a vederlo correre […]. C’era l’allenatore, il dottore, il massaggiatore ed un altro che si chiamava “medico” e che era meglio di un dottore.” p. 42)
Le relazioni interpersonali e lo status dell’atleta in seno al gruppo sono altrettanti elementi da considerare nell’analisi delle dinamiche della prestazione. Negli sport collettivi, per esempio, dove si sottolinea spesso l’importanza della prestazione, della coesione del gruppo (ricerca di un obiettivo comune, piacere e soddisfazione nel progredire insieme in seno alla squadra) e alcune forme di leadership, comportano che la complementarità degli atleti nell’azione sia essenziale (“ho calciato il pallone con l’interno del piede destro, per arrivare al centro dell’area. Il portiere si è tuffato. Il mio numero 9 era là, aveva intuito il passaggio, nella zona a destra del punto dove si calcia il rigore… Questo schema, la facciamo con buone condizioni venticinque volte per anno, ci troviamo ad occhi chiusi, e venticinque volte, la palla finisce in fondo alla rete […]. Ma io, sono il regista, costruisco, dribblo, distribuisco, disegno il gioco sul campo […]. Lui, entra sulla palla e raggiunge lo scopo. “, p. 23-24) La composizione di una squadra “vincente” è un’operazione delicata dove non basta selezionare i migliori tecnici o i giocatori più atletici, ma si tratta piuttosto di giocare con un insieme di parametri di cui alcuni, che non sono sempre direttamente osservabili, possono dare adito talvolta ad incomprensioni, addirittura a contestazioni, in seno stesso alla squadra.
Lo status che si accorda all’atleta o quello che egli stesso si attribuisce è un elemento da prendere in considerazione. Alcuni sportivi sono dei leader nella loro disciplina, altri dei partner che assumono pienamente il loro ruolo (“ho sempre mitizzato lo spettacolo dei campioni ed ho avuto la fortuna, nei dodici anni di carriera professionale, di essere ai primi posti. Ho pedalato per due, sono stato anche il loro capitano nelle corse su strada […]. Vorrei essere un campione, visto dall’esterno, sono pronto per esserlo, ho vinto delle tappe, ho vinto delle corse, si cita spesso il mio nome, ho visto la mia foto sul giornale L’Equipe, mi si vede alla televisione, mi si intervista sull’andamento delle corse; ma io, so che non sono un campione, e che c’è, tra me e loro, un baratro di un larghezza insospettabile” p. 54-55)
Che ne è in compenso degli atleti che percepiscono in loro stessi, un potenziale più elevato di quello che accordano loro gli allenatori o i selezionatori? Come gestire, inoltre in seno ad un gruppo, una volta decise le selezioni, il supporto di coloro che non sono stati selezionati, nel momento in cui li si fa passare dallo status di leader potenziale della corsa a quello di partner? Come, contribuire infine ad abbattere le barriere che gli atleti tendono a fissare loro stessi, (“Ho 26 anni e sono il più forte martellista in Europa da cinque anni. Non sarò mai il più bravo del mondo a causa di un americano” p. 97) per costruire una cultura della prestazione (“Ha perso la speranza nelle generazioni. Si consuma rapidamente nella disfatta. Li aveva valutati tutti alla prima occhiata, li aveva giudicati tutti al primo colpo d’occhio, e li aveva classificati sistematicamente tra i secondi […]. Alberto non era nato per essere battuto. Non era un corridore di 400 metri ad ostacoli, era un vincitore dei 400 metri ad ostacoli” p. 60-62?) Le risposte a queste domande non sono né immediate né universali. Non c’è ricetta, non ci sono soluzione chiavi in mano. Esistono degli strumenti (e cioè: principi, metodi, tecniche) di intervento e conviene che l’allenatore se ne appropri per esserne capace di ricorrervi, non in modo sistematico, ciò non avrebbe senso, ma quando si rivelano adattati alla situazione.
Esistono anche basi di conoscenze (scientifiche, empiriche) sulle quali l’allenatore che le possiede può fare affidamento per affrontare in modo adeguato situazioni che incontra o decisioni che prende. Non si tratta ancora, semplicemente di applicare le conoscenze (es: considerare le raccomandazioni scientifiche come delle prescrizioni, duplicare il programma di allenamento di una stagione riuscita di un atleta) ma di ben utilizzarle per guidare le sue scelte.
“un atleta che non ha identificato l’errore che ha commesso corre il rischio di riprodurlo” |
L’analisi dello svolgimento delle competizioni costituisce un altro importante elemento nell’accompagnamento del percorso dello sportivo. Certo, ogni competizione è singolare, ma non sempre costituisce un’opportunità privilegiata per l’atleta ed il suo allenatore per accumulare un insieme di esperienze, ora di successo, a volte di insuccesso da cui poterne trarre pienamente profitto se, non si prende il tempo per analizzare in modo distaccato, per trarne degli insegnamenti o ancora per rivedere il loro giudizio a caldo.
Tuttavia, alcuni allenatori, pensando di risparmiare tempo o proteggere i loro atleti, preferiscono occultare le situazioni di insuccesso accordando loro un carattere eccezionale legato ad un contesto particolare: alcuni momenti è meglio dimenticarli e ripartire su delle buone basi! Ma su quali basi? È dimostrato per esempio, che due atleti di una stessa squadra possono avere un’interpretazione personale differente di una stessa situazione, (“La palla gli è arrivata all’altezza ideale, ripresa al volo in modo perfetto […]. Un tiro di una precisione tale da staccare la tela del ragno nell’angolino […]. Il portiere ha reagito, si è girato d’istinto e ha deviato con uno schiaffo la palla al di sopra della traversa. Un miracolo […]. Ritornando in campo, gli ho dato un colpo sui glutei, volevo fargli capire che sono delle cose che succedono. Mi ha fatto un gesto della mano che voleva dire chiaramente che il mio passaggio era buono e che è stato un crimine da parte sua averlo sprecato”. p. 25) che avranno per questa ragione un impatto differente per ciascuno, (“Ho provato a spiegargli che da alcuni giorni c’era un vetro di fronte al portiere avversario che non c’era nulla da fare […]. Quando riprese il suo posto sul campo, sentii subito che era tornato con il piglio giusto”, p. 26-27). Peraltro, un atleta che non ha identificato l’errore che ha commesso corre il rischio di riprodurlo, anche se è evitabile, come quel giocatore di tennis che a due giochi dalla vittoria riesce a farsela sfuggire perché, proiettato sempre sul risultato, (“Stavo per vincere […]. Mi sono concesso interiormente alla vittoria […]. Questo quarto set che mi sta permettendo di vincere la partita è un set di troppo; sicuramente lascerà delle tracce muscolari per la semifinale dell’indomani” p. 73-75) non è più realmente attore della sua partita, ma ne è diventato uno degli spettatori.
L’opera di Paul Fournel suscita ben altri argomenti potenziali di analisi nella pratica di alto livello sotto l’angolo scelto dall’autore della sofferenza dell’atleta. Illustra così, a suo modo, con lo sguardo distaccato e l’approccio comprensivo cosa conviene adottare, nelle pratiche che accompagnano la prestazione, per analizzare l’azione ed i contesti nella quale si inserisce.
Nadine Debois
Institut National du Sport, de l’Expertise et de la Performance, Research Department
Nadine Debois è ricercatrice presso il National Institute of Sport, Expertise and Performance (INSEP). Si è laureata per la prima volta in educazione fisica, quindi ha conseguito il dottorato di ricerca in scienze umane (psicologia dello sport) nel 2001. È anche ex atleta d’élite (finalista olimpica nel 1988). I suoi interessi nella ricerca si concentrano sulla gestione dello stile di vita, sullo sviluppo della carriera e sulle transizioni della carriera nello sport d’élite. Oltre alla sua ricerca, Nadine organizza seminari e lezioni di psicologia dello sport nell’istruzione iniziale e permanente per gli allenatori, nonché servizi psicologici sportivi applicati per atleti d’élite e allenatori in vari sport.
È membro del Consiglio della Società Francese di Psicologia dello Sport (SFPS) di cui è stata Presidente dal 2008 al 2011.
Tratto da: Réflexions Sport // # 2 – ottobre 2014
Bibliografia:
Fournel (Paul)– Les Athlètes dans leur tête. Paris, Édition du Seuil, Collection « Point ». 1994.
Traduzione di
Graziano Camellini