Cos’è l’amore?
Siamo soli nell’universo?
Dio esiste?
Ma soprattutto… vive più a lungo un velocista o un maratoneta?
Le più grandi menti del passato hanno tentato di dare una ragionevole risposta alle prime tre domande.
I fratelli Lee-Heidenreich e Jonathan Myers hanno trovato la tanto attesa risposta alla quarta [1].
Questi tre annoiati ricercatori americani hanno deciso di indagare a fondo sull’argomento analizzando la longevità degli atleti che hanno preso parte alle olimpiadi nel lasso di tempo compreso tra il 1928 e il 1948.
Nello specifico, hanno scelto due specialità con partecipanti mediamente ectomorfi (saltatori in alto e maratoneti) e due con partecipanti mesomorfi (sprinter e discoboli).
Escludendo i soggetti che hanno avuto morti traumatiche, hanno identificato 336 persone (229 uomini e 107 donne), calcolato il loro body mass index (BMI), l’indice di massa corporea, basandosi sulle misurazioni dell’epoca e hanno comparato le differenti età in cui questi ci hanno lasciato.
Il BMI è un parametro largamente utilizzato per ottenere una valutazione generale del proprio peso corporeo. Si ottiene tramite una formula matematica che divide il proprio peso per il quadrato dell’altezza. Più un soggetto ha una corporatura massiccia, tanto più il valore di BMI sarà elevato.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità consiglia di mantenere il proprio BMI in un range di valori compreso tra 18 e 25 Kg/m2; al di sopra di questi aumenta l’incidenza di malattie cardiovascolari e l’insorgenza di patologie come il diabete mellito, fino ad arrivare ad una aumentata incidenza di mortalità [2].
Il BMI è alla base anche della spiegazione razionale riguardo alle differenti aspettative di vita tra i vari atleti: più il suo valore è nei limiti consigliati e più l’aspettativa sarà favorevole. Alla luce di ciò, risulta ovvio che la vincita o meno di medaglie olimpiche non influisce sulla aspettativa di vita.
Confrontando queste considerazioni con i dati raccolti sugli atleti olimpionici, emerge che saltatori, velocisti e maratoneti vivono più a lungo della corrispondente media nazionale.
In particolare i fondisti e i saltatori vivono sensibilmente più a lungo degli sprinter. I discoboli sono quelli che hanno un’aspettativa di vita peggiore tra questi atleti e, in alcuni casi, anche della loro media nazionale.
Ovviamente, questo studio ha dei limiti potenziali. Il contesto socioeconomico dei vari atleti non viene preso in considerazione, così come non è dato sapere se le loro morti siano state naturali o dovute a complicanze cliniche di varia natura quali cancro o patologie cardiovascolari.
Non viene presa in considerazione la mole di allenamenti a cui i vari atleti si sono sottoposti e non è possibile sapere se è stato fatto uso di sostanze dopanti ed eventualmente di quale tipo.
I risultati vanno dunque “presi con le pinze” ma lo studio potrebbe essere interpretato come un incentivo a praticare sport per migliorare il proprio stato di salute fisico ma anche psicologico.
L’attività fisica è in grado di ridurre l’incidenza di svariate patologie e, stando a quanto affermato dallo studio preso in esame, comporta anche una migliore aspettativa di vita.
Continuiamo quindi a praticare la nostra disciplina in modo sereno e incentiviamo chi non fa sport a prendere la buona abitudine di ricavarsi uno spazio tra gli impegni quotidiani, sollevarsi dal divano e praticare della buona e sana attività fisica!