intrusioni genitoriali di fulvio maleville

Ho spesso sentito dirigenti e tecnici lamentarsi dei genitori. Quasi sempre sono infastiditi dell’invadenza con la quale alcuni s’intromettono nelle loro scelte tecniche, in altre occasioni padri e madri s’insinuano nel rapporto fino a sostituire del tutto il tecnico.

Fare il genitore è sicuramente il mestiere più difficile del mondo, responsabilità e aspettative sui propri figli inducono a spiare il percorso dei propri rampolli e intervenire per proteggerli quando sono in difficoltà. Ne so bene io che faccio l’insegnante, non c’è anno che non si verifichino problemi con genitori iperprotettivi, credono solo ai figli e li proteggono ad oltranza anche quando è palese il torto commesso.

Ma sono anche genitore ed ammetto che a volte esagero, mi preoccupo oltre i reali bisogni dei miei figli e questo m’induce ad assumere un ruolo invadente, a puntare i piedi, mi rende insoddisfatto di come stanno andando le cose pur sapendo che molto spesso l’attività, soprattutto in campo, è fatta da persone che fanno volontariato. Alcuni di noi però esagerano sconfinando e prevaricando gli altri e allora la cosa diventa pesante, a volte insopportabile per quei poveri cristi di operatori che oltre a dover risolvere i problemi tecnici dei nostri figli devono pure giustificare continuamente le loro scelte tecniche.

Ma facciamo due passi indietro e andiamo a guardare da dove partono questi problemi, quando hanno cominciato a manifestarsi e soprattutto perché sono emersi prepotentemente proprio nell’ambiente sportivo, luogo che a detta di tutti dovrebbe essere solo un ambito formativo.

Il verificarsi di certi eventi non è casuale, spesso ad innescare quel perverso meccanismo ed innalzare le tensioni sono le stesse società incapaci di rispondere alle aspettative delle famiglie. Sovente le strutture sociali sono incomplete, deficitarie, formate da persone che si dedicano spontaneamente a fare da accompagnatore, dirigente o allenatore. Non si tratta quindi di professionisti (non è detto che questi ultimi risultino migliori), ma di individui che dedicano il loro tempo libero ad un’azione piacevole e proprio per questo motivo ritengono di aver diritto d’impostarla secondo le loro aspettative e mentalità. In questo contesto è però frequente trovare operatori non proprio all’altezza di gestire compiutamente il gruppo, oppure giovani allenatori sguarniti di esperienza gestionale, troppo imberbi per indossare l’abito dell’adulto di riferimento.

I sodalizi commettono sviste ed imprudenze e senza rendersi conto innescano la miccia genitoriale. Di norma tutto parte con l’esaltarsi di qualche supporter per i risultati ottenuti dal talentato di turno. Così si comincia aspirare ad obiettivi mirati, si punta a scalare la vetta, mettersi in evidenza e cade nel tranello di dover sempre dimostrare qualche cosa che inizialmente non costituiva un obiettivo sociale. I dirigenti di solito impongono le regole ed i genitori vengono trascinati nella battaglia, indotti a pensare che la vittoria vale pure qualche sacrificio. Eccoli quindi aumentare le pressioni sui loro figli, pargoli che non sempre rispondono compiutamente alla chiamata alle armi, anzi spesso tendono a sgattaiolare via cercando di evitare le tensioni imposte, oppure optando per altri ambiti perché gli stimoli nel moderno mondo non mancano di certo. Quando si verificano le prime perdite in battaglia e il figlio non si piazza secondo le aspettative, oppure altre società s’impongono

all’attenzione generale, ecco scattare nei genitori richieste tecniche e pressioni per recuperare le posizioni perdute.

Così “radio scarpa” alimenta le voci nelle trincee genitoriali e qualcuno si assume l’onere di riferire al dirigente o al tecnico che “altri hanno detto …” e arriva ad individuare in” allenamenti più mirati” la soluzione di tutti i mali. I dissensi poi si spingono a “suggerire” una maggior applicazione da parte del tecnico perché certi ragazzi “si sentono trascurati ed abbisognano di più attenzioni”.

Non è raro che dopo questa fase i genitori si spingano a gettare lo sguardo oltre confine per vedere se la società in ascesa possa magari garantire più significativi risultati al proprio figlioletto. Giunti a questo punto diventa improbo spiegare a padri e madri che bisogna aver pazienza, è necessario accompagnare i ragazzi a crescere e non forzarli, che ci sono dei tempi da rispettare e non appare corretto soverchiare le leggi della natura.

Ma quando hai puntato sulla competitività, dato valore al piazzamento e stimolato chi si mette in evidenza diventa difficile tornare indietro. Calmierare gli animi assolutamente impossibile. Innescati gli orgogli genitoriali c’è poco da fare, solo pochi proseliti accettano di ragionare e guardano oltre l’effimero risultato del glabro, la maggior parte perde la bussola e trova soluzione nel pretendere una maggior specializzazione del figlio e accettabile trovargli al più presto una gara al buon fine di “non fargli fare brutta figura”.

A tutto questo si contrappone l’incapacità sociale di introdurre figure dirigenziali e tecniche all’altezza, persone capaci d’imporre un progetto tecnico che accompagni ad evolvere i soggetti mentre la folla sugli spalti inneggia e spinge gli atleti, spesso privi di talento, ad arrampicarsi sul podio.

A questo punto invece di sedimentare le aspettative per dare giusta dimensione all’attività e programmare si cerca di tamponare, di preparare di volta in volta i giovincelli per la gara del giorno successivo. Morale: i ragazzi non imparano nulla, inseguono l’irrealizzabile, non costruiscono le basi coordinative e tecniche per il loro futuro.

Recedere da questa situazione diventa difficilissimo, direi quasi impossibile. Perché aver proclamato obiettivi molto arditi a tempo debito è oramai diventato un boomerang che ora semina il panico proprio tra banchi di chi aveva lanciato l’editto.

La soluzione parte quindi dall’indurre le società ad un diverso atteggiamento di partenza perché in questi ultimi anni molti fulmini non sono caduti a caso ma attirati proprio dalle stesse persone che oggi si lamentano. Anche le istituzioni hanno le loro gravi colpe perché negli ultimi dieci anni hanno esacerbato aspetti che nel settore giovanile dovevano invece essere calmierati, si erano posti obiettivi “prestativi” mai “tecnici” ed oggi dare un riassetto corretto all’attività è diventato difficilissimo. Si sono anticipati gli stimoli ad intere generazioni, prevaricando i bisogni di settori giovanili che avrebbero dovuto affrontare un’attività diversa, eseguita in modo calmierato, costruttivo e progressivo.

In questo contesto non bisogna meravigliarsi se qualche genitore contesta per la mancata convocazione del figlio alla rappresentativa. Appare normale a mamma e papà che il proprio pargolo, secondo in graduatoria per colpa del vento contrario, abbia sempre e comunque diritto ad essere lui a rappresentare la comunità. Una società impostata in forme elitarie non ammette infatti sostituzioni e alternanze.

Questa condizione dovrebbe indurre tutti noi a porci delle domande, perché l’aspetto non appare più sportivo ma politico. Ci dovremmo chiedere come stiamo tirando su le nuove

generazioni e quale mentalità stiamo dando ai nostri figli continuando ad agire in questo modo.

Così anch’io mi sono posto questi interrogativi e per fortuna ritengo di avere la coscienza pulita, perché sono stato il primo e forse l’unico a contestare l’ennesima convocazione di una mia atleta in rappresentativa regionale. Neanche a dirlo l’ho fatto con una circonstanziata lettera nella quale spiegavo al fiduciario tecnico regionale l’assurdità di convocare sempre e solo la stessa atleta per il semplice fatto che saltava un centimetro più delle altre. La mia mentalità porta a ritenere che l’atletica abbia bisogno di tutti ed è importante stimolare e incoraggiare persone diverse. Così facendo potremmo evitare che atleti di (supposta) seconda schiera appendano precocemente le scarpe al chiodo e fornendo loro nuovi stimoli per continuare.

Forse sarebbe semplicemente il caso di togliere alcune esasperazioni e mettere i bisogni dei ragazzi davanti a quelli degli adulti.

Le società, infatti, stanno imponendo (o si fanno imporre) una serie di diktat che portano a:

a) Una pressante attività agonistica;

b) Guardare all’attività per obiettivi prestativi e non tecnici;

c) Selezionare gli atleti in base alle disponibilità mettendo in secondo piano le esigenze dei ragazzi;

d) Pressare i bambini per ottenere presenza alle gare invece che coinvolgerli ed attirarli grazie al gruppo;

e) Non prendere in considerazione le esigenze famigliari quando si scontrano con le scelte sociali;

f) Escludere i genitori dalla gestione societaria per timore di dover mettere in discussione gli obiettivi fondanti e le proprie motivazioni;

g) Esaltare i risultati tecnici dei giovani atleti invece che quelli delle categorie assolute;

 

Quanto detto mette in forte difficoltà i genitori di coloro che, per ritardato accrescimento, minori doti o insufficienti prerequisiti vedono nei loro figli persone che valgono meno di altri perché mancano di portare punteggi adeguati alle gare, non si piazzano sul podio e fanno difetto nel contribuire alla vittoria societaria.

Facendosi carico di questa esaltante competitività ad alcuni genitori risulta normale chiedere ai sodalizi una maggior attenzione verso i loro figli, che tradotto significa specializzare maggiormente i ragazzi per poterli rendere più competitivi. Qualche padre di famiglia si è così guardato in giro, non tanto per vedere se al proprio figlio potevano essere garantiti corretti percorsi tecnici (pochi lo fanno) ma per dare al pargolo la possibilità di raggiungere in fretta dei risultati.

Tutto questo è diventato un serio problema gestionale, perché le società si sentono attaccate e reagiscono chiudendosi a riccio e soprattutto dimostrando di non essere assolutamente in grado di rispondere alle richieste dei procreatori.

 

Appare utile indicare ai sodalizi come ridimensionare le loro aspettative prestative per darsi una più efficace strutturazione tecnica, fattore che porterebbe alla lunga ad una maggior efficienza realizzativa degli obiettivi di base e conseguentemente anche a dei risultati tecnici.

 

Tali obiettivi sono a mio avviso così identificabili:

 

a) Investire nei tecnici che offrono prospettive di restare e dare continuità di azione;

b) Creare percorsi diversificati sia da un punto di vista tecnico che agonistico nelle varie categorie giovanili;

c) Aprirsi ad un maggior dialogo tecnico al fine di verificare le proprie reali capacità e conoscenze;

d) Calmierare e dare progressività agli attuali fattori agonistici;

e) Fornirsi di una struttura tecnica capace di accompagnare gli atleti in tutte le fasi del percorso atletico;

f) Darsi una collocazione tecnica nell’ambito giovanile o assoluto in rapporto alle proprie capacità organizzative ed economiche;

g) Lasciando fare ad altri quello che non si è in grado di assicurare ai propri atleti scegliendo l’ambito nel quale operare;

h) Prendendo accordi con sodalizi del settore assoluto affinché possano contribuire anche economicamente a rafforzare lo status e ruolo di chi produce, badando a mantenere il reale possesso dell’atleta e assicurando ai ragazzi una guida tecnica competente che s’identifichi con la società.

 

A questo punto, nel tornare a parlare dei genitori, non posso fare a meno che rispolverare le esperienze personali. Devo innanzitutto ammettere di essere stato fortunato perché in questi primi 40 anni di Atletica ho sempre trovato genitori ben disposti nei miei confronti e questo è forse anche merito dell’atteggiamento che ho tenuto con i loro figli.

Infatti, sono sempre stato accorto ad un rapporto aperto, completo ed esclusivo con i miei atleti. Non ho mai avuto paura di mettermi a “nudo”, ho sempre esposto apertamente quanto pensavo evidenziando i miei limiti. Ho così cercato di forgiare atleti aperti ai suggerimenti altrui, evitando di trasformare il mio gruppo in una setta. Mi sono piuttosto reso disponibile a crescere insieme ai ragazzi e quando mancavo delle esperienze per qualificare la loro azione ho scelto di farle “insieme a loro” andando da persone più competenti di me.

I genitori dei miei atleti sono sempre state persone discrete, non invadenti, si sono posti ai margini dell’azione, alcuni lo hanno fatto “restando a vista”, altri affidandomi completamente i loro figli. E quando ho ereditato atleti i cui genitori erano ritenuti da tutti “intriganti e rompiscatole” non ho avuto alcuna complicazione, tanto che sono dovuto andare io a casa loro per tenere i rapporti visto che disertavano un po’ troppo il campo. Nessuno si è mai sognato di venire in pista a discutere dei lavori che proponevo o darmi soluzioni.

 

Ritengo che questa condizione sia innescata dal fatto che il genitore ha bisogno di sentirsi rassicurato, di vedere il proprio figlio seguito non tanto da un tecnico quanto piuttosto da una persona “che ne sa più di lui”. Per esperienza posso dire che i genitori tendono a riempire i vuoti lasciati da tecnici e società. Togliere ai genitori la possibilità di intromettersi è quindi proporzionale alle competenze che enuncia il tecnico e ai servizi offerti dal sodalizio.

Quando un padre si accorge che il proprio ragazzo è seguito correttamente, da una persona competente e preparata, che si preoccupa del proprio figlio anche sotto altri profili come quello scolastico, s’interessa alle problematiche fisiche, quel genitore si sente rincuorato, rinfrancato nell’aver trovato un buon adulto di riferimento per il proprio figlio, una persona della quale “ci si può fidare”.

È vero, ci sono madri o padri prevaricanti, alcuni ossessionati, altri esaltati, assenti o disinteressati, ma è anche vero che molti di noi non fanno compiutamente il proprio lavoro.

Ad un corretto riesame ci accorgiamo come troppo spesso i problemi con i genitori li abbiano allenatori che vanno in campo “ad ore limitate”, che stanno ai margini, poco disposti ad accompagnare a casa, gare o raduni i propri atleti. Molti tecnici trascurano l’andamento scolastico dei ragazzi che allenano e si limitano a gestirli tecnicamente in campo evitando di dare ai virgulti le corrette direttive perché organizzino compiutamente il loro tempo.

 

A questo punto direi che un buon tecnico è chi acquista la fiducia dei genitori e questa è una qualità che lo rende una persona speciale.

 

Infine, voglio ricordare che con i più giovani, soprattutto le categorie che lavorano in gruppo, bisognerebbe parlare apertamente ai loro genitori prima di cominciare l’attività di campo. Le cose dovrebbero essere chiarite per tempo e mai in corso d’opera, sarebbe infatti utile rendere edotti dei percorsi tecnici che s’intende effettuare, far presente gli obiettivi sociali, comportamentali, le esigenze della società, l’importanza del rapporto tra coetanei e in che cosa consiste il vero rispetto verso gli operatori. Ma bisogna anche saper coinvolgere senza prevaricare, entusiasmare ed esaltare. Risulterebbero infatti inevasi i consigli che abbiamo formulato se al centro dell’azione dovessimo mettere le nostre esigenze invece che quelle dei ragazzi.

 

Come già affermato precedentemente è necessario saper guardare maggiormente agli obiettivi tecnici rispetto quelli prestativi, e non finirò mai di dire che dobbiamo preoccuparci di risultare abbastanza efficienti da saper riempire compiutamente il famoso “Barattolo”. Un modo di operare che evita sicuramente intromissioni scomode e risponde in ogni caso alle aspettative dei ragazzi.

Solo in questo modo avremo genitori appagati, contenti di seguire i loro ragazzi e di vederli crescere e migliorare con progressività e saranno i loro stessi figli a dire: “Papà non ti preoccupare perché è stato Fulvio a dire che devo studiare…”

 

Ora come sempre non si può fare di un’erba un fascio, ognuno di noi ha la propria personalità e mentalità, evidenzia le proprie aspettative e disponibilità comportandosi come meglio crede.

Come sempre saranno gli altri a dire se il nostro atteggiamento è stato quello giusto. Ricordiamoci infine che in testa alla lista dei nostri controllori ci sono i ragazzi e subito dopo, guarda caso, proprio i loro genitori.

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